Il periodo romano e la «Merope»

Nel maggio del 1781 l’Alfieri aveva raggiunto, a Roma, dopo una lunga separazione, la contessa d’Albany e, a costo di umilianti compromessi, di «pieghevolezze e astuziole cortigianesche» (come egli dice nella Vita), era riuscito a stabilirsi nella città in cui la donna amata risiedeva sotto la protezione e la tutela del cognato, il cardinale di York.

In questo lungo periodo (12 maggio 1781-4 maggio 1783) il poeta trovò un particolare agio di vita, un singolare equilibrio fra la solitudine adatta agli studi e all’esercizio poetico, il conforto delle quotidiane visite alla sua donna, il contatto con una società di letterati che stimolavano in lui un nuovo desiderio di fama e di affermazione letteraria. Condizione di agio che impose all’Alfieri amarissime rinunzie al suo orgoglio, alla sua sincerità, al suo atteggiamento anticortigianesco e anticlericale a cui però reagiva il suo animo che, mentre si mostrava all’esterno conciliante per salvare la possibilità di una vita di affetti e di lavoro in quelle condizioni cosí propizie, si riscattava segretamente con la rinnovata espressione del suo sdegno libertario, dei suoi veri sentimenti antitirannici e anticlericali, cosí come si può vedere nelle odi de L’America libera e nel poemetto L’Etruria vendicata.

Le cinque odi, scritte fra il dicembre del 1781 e il giugno del 1783, costituiscono infatti una nuova esplosione dell’animo alfieriano che, proprio nella Roma papale, nel centro di un’Italia che a lui appariva incapace di volere e operare azioni generose ed eroiche, esalta le gesta dell’“uomo libero” Washington, la lotta del popolo americano contro la dominazione inglese. Queste odi corrispondono anche a una velleità letteraria di nuova esperienza di forme artistiche diverse da quella tragica e a quella volontà di un maggior contatto con la tradizione letteraria italiana che ha il suo maggior valore nella stessa ripresa tragica attraverso il complesso esercizio della Merope.

Qui c’è la chiara presenza del Filicaia, ma risentita fuori della essenziale compostezza e frigida chiarezza del modello, in un confuso turgore di impeti, in un tumulto di volizioni pratiche, di riflessioni storico-politiche che il poeta non seppe chiarire e coordinare, incapace di trovare un vero centro lirico animatore e un preciso schema organico ai suoi impeti sentimentali troppo irruenti e disordinati, al suo sfogo ardente ed amaro. Sfogo che rivela il suo carattere piú vero, dolente, pessimistico quando nell’ultima ode, scritta dopo la pace del 1783 fra americani ed inglesi, la linea di esaltazione della lotta liberatrice degli americani si spezza di fronte a quello che l’Alfieri considerava un vile compromesso della libertà americana con il dispotismo regnante in Europa e di fronte alle ragioni economiche che improvvisamente egli scopre nella stessa lotta di liberazione degli americani. Anche la stessa guerra che prima il poeta aveva cantato ed esaltato gli appare motivata da cause impure e vili ed egli contrappone ad essa le guerre degli antichi, mosse, secondo la sua idealizzazione, dal puro amore della libertà e da un eroismo generoso e gratuito.

L’entusiasmo iniziale si cambia in una fremente delusione, in una denuncia del «secol vile», del presente impoetico e antieroico, in un dolente grido pessimistico che ricollega anche quest’opera, letterariamente e poeticamente fallita, all’animo piú profondo dell’Alfieri, al suo senso doloroso della realtà sempre inferiore all’ideale. E la ricollega, d’altra parte, anche alle condizioni speciali di un’epoca in cui, sotto il compromesso umiliante con la corte romana, il poeta tentava di riscattarsi piú congenialmente nell’intima rivolta contro ogni compromesso, e con le forme letterarie che piú si adeguavano o al suo bisogno di satira e invettiva o a quella tensione eroica che lo portava appunto all’equivoca tradizione della lirica “alta” o, nel Saul, alla immaginosità della Bibbia e di certa iconografia settecentesca.

Anche il poemetto L’Etruria vendicata, iniziato sin dal 1778 e compiuto nel 1786, ma sviluppato in gran parte negli anni romani, vale soprattutto come documento dell’animo alfieriano, della sua situazione in questo periodo, fra la volontà di un esercizio letterario diverso da quello tragico e di una ripresa di forme letterarie tradizionali, e il bisogno di uno sforzo acre e satirico contro la tirannide politica e sacerdotale.

Si trattava di un intento ambizioso che egli avrebbe ripreso piú tardi nelle Satire con una maggiore libertà da quello schema narrativo che era un surrogato infelice allo schema tragico: il quale poi di quando in quando tende a riaffiorare in alcune situazioni piú tese, ma poco adatte al poemetto; cosí come troppo spesso il «terribile» vi si sviluppava in forme truci, esagerate, di visioni paurose, goffe e letterariamente sviluppate, e troppo spesso l’«agrodolce» da lui ricercato si scindeva in motivi comici troppo calcati e ripetuti e in acerbe caricature appesantite da un risentimento troppo aperto e mancanti di quella agevolezza di disegno che l’Alfieri comico non possedeva e che vanamente avrebbe piú tardi cercato in forma ancora piú esplicita e costante nelle Commedie.

E mentre debole, contorto è l’impianto narrativo, basato sull’antistorica rappresentazione dell’assassinio di Alessandro de’ Medici da parte del cugino Lorenzo, e complicato dall’accessorio inefficace della vicenda della sorella di Lorenzo insidiata nel suo onore da Alessandro, lo stesso contrasto fra l’uomo libero e il tiranno perde ogni valore poetico nella soluzione cosí poco alfieriana di un contrasto fra un eroe atteggiato retoricamente e un tiranno grottescamente e puerilmente vile, privato di ogni grandezza. Sí che, nel finale farraginoso e lentissimo, il duello fra i due avversari si risolve in una stentata e buffonesca rincorsa, alla fine della quale Lorenzo cerca invano di costringere il vilissimo cugino a trafiggersi con la spada e solo all’ultimo si decide a colpirlo con la propria.

Fallito il disegno generale, anche le scene particolari di rappresentazione satirica e comica della paura del tiranno e della viltà e scelleratezza dei suoi cortigiani e consiglieri riescono generalmente sforzate e diluite per un eccesso di ripetizioni e per un’abbondanza di caratterizzazioni poco incisive e poco distintive.

In esse l’Alfieri finisce per scendere sul piano di una parodia pariniana troppo esterna e poco pungente, ovvero carica eccessivamente le due figure satiriche di fiele personale, di allusioni autobiografiche, o riduce la forza distintiva in nomi satirici sulla base di caratterizzazioni ripetute e sfocate (Frate Strozzicchia l’inquisitore, il poeta cortigiano Dolcimele, Scartabello il bibliotecario ducale, ecc.), o sfoga il suo acceso anticlericalismo e anticattolicesimo in lunghe tirate in cui sfogo pratico ed esercizio letterario finiscono o per comporsi o per elidersi senza raggiungere fusione ed efficacia.

Solo una volta in questa lunga opera si avverte la voce piú profonda della poesia alfieriana e ciò avviene quando, nell’introduzione alla descrizione degli immaginati affreschi di Michelangelo in onore dei Medici nel palazzo di Alessandro, l’autore improvvisamente scatta in un’ottava energica e vibrante, che risolve poeticamente l’impegno alfieriano di un contrasto di toni eroico-satirici in cui l’«agrodolce» si integra potentemente con il «terribile» altrove risolto in forme truci o retoricamente atteggiate:

Michelangiol, che pugne altre ritrarre

non dovea che dei Numi in Flegra irati;

o di quei che a Termopile le sbarre

chiusero all’oste coi corpi svenati;

o di quei che togliea Roma alle marre,

gran capitani a un tempo, e pro’ soldati:

Michelangiol, da’ rei tempi costretto,

eroi ritrasse a cui fu campo il letto.[1]

Si tratta di un momento, anche se altamente indicativo per il senso eroico dell’arte e della vita che l’Alfieri sempre piú fortemente possedeva, per la sua poetica del «forte sentire» e della poesia figlia di libertà, quale egli esporrà nel trattato Del Principe e delle lettere.

Ma, nel complesso, il poemetto vale soprattutto come documento e particolarmente si ricollega nella sua parte centrale al bisogno di riscatto dal compromesso pratico di quegli anni e al desiderio alfieriano di fare esperienze letterarie piú vaste, di prendere miglior contatto con varie forme della tradizione letteraria italiana.

Né tale desiderio si attuò solo fuori del campo della tragedia, ché nel febbraio del 1782, mentre terminava la revisione delle sue prime dodici tragedie in vista della loro pubblicazione, proprio da una rinnovata attenzione allo stile e alla tecnica tragica, che lo aveva indotto a leggere la Merope del Maffei, l’Alfieri fu spinto di nuovo all’attività teatrale, alla composizione di una sua Merope in gara con quella appunto del Maffei[2]. Sicché la Merope alfieriana venne concepita anzitutto come un alfierizzamento dello schema offerto dal Maffei e sviluppata seguendo le linee e le situazioni fondamentali di quello, ma rafforzandole, drammatizzandole piú energicamente, raddensandole in alcuni punti decisivi, coerentemente alla tecnica drammatica alfieriana, con un maggior rilievo dell’azione, con l’abolizione dei personaggi intermediari, con la concentrazione dell’interesse sui soli personaggi necessari allo svolgimento dell’azione, con una caratterizzazione piú incisiva dei personaggi, con un piú intenso intreccio delle battute e delle scene, con un linguaggio piú vibrato ed appassionato, con una significativa rianimazione drammatica delle narrazioni quando queste vengono se pur raramente accettate.

Come si può utilmente riscontrare nella scena 2 dell’Atto II, in cui Egisto narra come uccise l’ignoto giovane che gli sbarrava la strada verso Messene, e che l’Alfieri contrappone a quella del Maffei (Atto I, sc. 3) come significativa prova della diversa efficacia della sua tecnica e del suo linguaggio tragico, della diversa forza e del diverso rilievo dei suoi personaggi anche nelle forme stesse della narrazione[3].

Proprio la considerazione di questa narrazione e del rilievo che vi assume il personaggio di Egisto (cosí impulsivo, eroico, mosso da una giovanile ansia di avventura e di affermazione personale[4] e pure tormentato dal rimorso per il delitto che ha dovuto commettere nel suo ingresso a Messene) ci conduce a riconoscere in concreto l’impegno dell’Alfieri nel dare diverso vigore ai personaggi, liberati dall’atteggiamento di conversazione con i confidenti, resi alti nella loro maggiore individualità e nella essenzialità dei loro incontri, necessari all’azione e alle situazioni centrali e caricati (per quanto lo permette la generale impostazione del “soggetto” e la relativa forza ispirativa di questa tragedia) di un tormento e di una complessità psicologica variamente genuini ed efficaci (piú in Merope, molto meno in Polifonte e Polidoro), ma comunque significativi nell’alfierizzamento dell’opera presa a base di tale complessa operazione tecnica.

Alfierizzamento ben evidente anche nel paragone della costruzione del dialogo nelle due tragedie: nel Maffei cosí rettilineo, simmetrico, disposto a serie di versi concluse e compatte; nell’Alfieri cosí vario, intrecciato, rilevato in spezzature, interruzioni, movimentato da sospensioni, arricchito e approfondito da pause di silenzio e da scatti improvvisi, anche se assai lontano dal ritmo impetuoso, fulmineo di altre sue tragedie precedenti. Come avviene del linguaggio e del verso tanto piú vibrante nell’Alfieri rispetto a quello piú familiare e discorsivo del Maffei («semplicetto e chiaretto» come i suoi personaggi), facile a scendere in cadenze troppo dimesse o viceversa a sciogliersi in esiti cantabili, legato com’era a tutta una ricerca di tono medio, a forme affettuoso-idilliche, all’affabilità di un bonario realismo cosí caratteristico della poetica e dello spirito arcadico anche dove tendono ad una maggiore dignità classica e tragica[5].

Tuttavia, se la Merope alfieriana rappresenta un’interessante applicazione della tecnica tragica dell’Astigiano e poté significare per lui una riprova della bontà del suo sistema teatrale, della sua capacità di superamento assoluto di quella che il secolo considerava l’ottima delle tragedie italiane, l’alfierizzazione del modello non toglie che in quest’opera si avvertano chiare tracce del compromesso imposto all’autore da una simile prospettiva di rifacimento su di uno schema cosí lontano dai temi piú interamente suoi. E ciò che manca alla Merope è proprio il motivo poetico piú vero e centrale dell’Alfieri, la meta di delusione e catastrofe che tende nelle tragedie alfieriane l’impeto dei personaggi e dell’azione e ne provoca la vibrazione piú intensa e dolorosa, il tormento dei loro desideri inappagati, del loro urto eroico ed inane contro i limiti che li circondano e rendono supremamente tragica la loro ansia di liberazione e di affermazione. Questa tipica condizione della tragedia alfieriana era in contrasto con il “lieto fine” dello schema maffeiano che l’Alfieri accettava nelle sue linee fondamentali. E la tensione della tragedia ne veniva nuclearmente limitata e particolarmente indebolita proprio nel finale (è l’unico finale alfieriano risolto, al di là di quello della Virginia, con il trionfo intero dei giusti e con la morte e la punizione del tiranno), in cui, dopo il rafforzamento della situazione piú drammatica nell’Atto IV, l’azione si scioglie in maniera piú esterna e meccanica con il gesto improvviso di Egisto il quale strappa la scure di mano al sacerdote sacrificante nella cerimonia delle nozze fra Merope e Polifonte, e colpisce quest’ultimo, ottenendo la pronta adesione del popolo, che sopraffà le guardie del tiranno: risolvendo cosí nella concorde felicità una situazione che appariva quanto mai chiusa e troppo passivamente accettata da Merope.

Eppure, se sul contrasto drammatico prevale una vena di poesia elegiaca[6], è proprio in questa direzione che il linguaggio raggiunge la sua maggiore e piú intima fusione, una finezza di toni e di cadenze che, senza cadere nel patetico e nel languido, rappresenta il maggior risultato di questa tragedia, in cui l’Alfieri riesce a dar voce, in forme piú duttili, smorzate, colloquiali, ad una vita di affetti privati, familiari, a una delicata gamma di sentimenti che, potentemente raccordati al centrale motivo tragico, qui assente, arricchiranno l’espressione poetica alfieriana nel Saul, sia nella vita dei personaggi minori sia nella stessa complessa vita del protagonista, per la quale l’Alfieri nel relativo Parere parlò addirittura di «perplessità», in una versione della parola certo assai lontana da quella metastasiana ed arcadica.


1 L’Etruria vendicata, Canto I, vv. 425-432; in V. Alfieri, Scritti politici e morali, II, ed. critica a cura di P. Cazzani, Asti, Casa d’Alfieri, 1966, p. 16.

2 Né mancava una gara anche con la tragedia omonima del Voltaire, scritta a sua volta in competizione con quella del Maffei, e per applicare istanze classicistico-razionalistiche di regolarità, verisimiglianza, bienséance, dignité.

3 Basti notare in questo confronto l’uso alfieriano del dialogo entro la narrazione che la rianima nella concitazione con cui Egisto narra un movimento di scena e di contrasto e ricrea personaggi. Per non dire dell’abolizione di quei particolari riflessivi e sentenziosi cosí frequenti nella narrazione e in tutte le parlate del Maffei, coerenti alla sua impostazione piú discorsiva e familiare, confinante a volte con effetti involontariamente comici e leggermente goffi. Cosí Egisto commenta nel pieno della narrazione il colpo che l’avversario stava per assestargli con la sua clava: ‹‹Che, se giunto m’avesse, le mie sparse / cervella farian or giocondo pasto / ai rapaci avoltoi» (At. I, sc. 3; in S. Maffei, Opere drammatiche e poesie varie, a cura di A. Avena, Bari, Laterza, 1928, p. 11). Su alcuni di questi aspetti dell’alfierizzamento della Merope maffeiana sono importanti le pagine dedicate alla tragedia da M. Fubini, Vittorio Alfieri, Firenze, Sansoni, 1937; 2a ed. riveduta e accresciuta ivi, 1953.

4 C’è in Egisto quasi il ricordo di Oreste nella tragedia omonima, come in Merope ritornano tracce di Ottavia e di Antigone, in Polidoro di Pilade, in Polifonte di vari tiranni delle precedenti tragedie.

5 Si pensi per il bonario, affettuoso realismo familiare (non privo di efficacia entro la condizione non profonda e tragica dell’opera) ai versi con cui Merope esprime un primo moto di simpatia per Egisto (At. I sc. 3; in S. Maffei, Opere drammatiche cit., p. 10):

O Ismene, nell’aprir la bocca ai detti

fece costui col labbro un cotal atto,

che ’l mio consorte ritornommi a mente,

e me ’l ritrasse sí com’io ’l vedessi.

Quanto alla tendenza idillica che vena tutta la Merope maffeiana, basti pensare al monologo di Egisto che in mezzo ai pericoli in cui si trova sbalzato nella reggia di Messene rimpiange il «pastoral ricetto» dove era cresciuto in esilio, la dolce vita campestre («Che viver dolce in solitaria parte, / godendo in pace il puro aperto cielo, / e della terra le natie ricchezze!») e soprattutto il suo «letticciuol» e i suoi placidi sonni perduti («O quanto or caro il mio / letticciuol mi saria! Che lungo sonno / vi prenderei! Quanto è soave il sonno!», Atto IV, sc. 3; ivi, p. 48). Del prosastico in cui cade spesso il linguaggio maffeiano per la ricerca del «natural ragionare» (che era pure impegno notevole nella volontà arcadica di concretezza e di naturalezza) può essere esempio una battuta come questa in cui Merope, alle interessate profferte di amore di Polifonte, risponde con una mossa piú da commedia che da tragedia: «Amore, eh?» (ivi, p. 7). Forme estreme di un tono che trova i suoi migliori risultati in un’affettuosa, moderata eloquenza, in un patetismo affabile e poco profondo.

6 Vena elegiaca soprattutto legata allo sviluppo di quella «passione molle materna» (e la tragedia fu dedicata dal poeta alla propria madre) che del resto l’Alfieri nel Parere su questa tragedia giudicava «non interamente» del «genere dell’autore» (Parere cit., p. 120).